Un essere per metà scimmia e per metà uomo appare sul palcoscenico.
È un vero fenomeno: un animale che parla, canta e balla. Un buffone, un mostro.
È nato dalle ferite dell’anima di Franz Kafka, nel 1917.
Nasce mentre i nazionalismi fanno tremare le vene dell’Europa.
Si rivolge ad un auditorio di illustri Accademici, all’alta società del pensiero e della scienza.
E racconta la sua storia: scimmia libera, unica sopravvissuta di una battuta di caccia, catturata, ingabbiata e torturata. L’animale non può fuggire e per sopravvivere alla violenza sceglie l’adattamento: imita gli umani che l’hanno catturato, impara ad agire e a ragionare come loro.
La scimmia dimentica la vita nella foresta, rinuncia a se stessa, ignora la chimica del proprio corpo e così impara.
Impara il nostro linguaggio. Impara ad ignorare l’esperienza, a pensare senza sentire. “La Scimmia” è il racconto di una strategia di sopravvivenza che prevede la perdita di se stessi e del proprio sentire nel corpo. È la descrizione di un’iniziazione inevitabile alle solite vecchie regole del gioco del patriarcato, che impone la rinuncia all’intelligenza del corpo, al sapere dell’esperienza e dell’emozione. Si tratta di una rinuncia drammatica: senza quella voce interiore, integra e autentica, come si può esprimere l’intelligenza empatica così indispensabile alla sopravvivenza del vivente?
La scimmia è il corpo che vive, sente e quindi pensa.
È l’animale pienamente umano.
La scimmia siamo noi.